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CESSATE IL FUOCO!

 

Cessate il fuoco!

 L’incendio nel nostro Paese sta raggiungendo dimensioni apocalittiche. Gl’ingredienti ci sono tutti: i quattro Cavalieri che cavalcano il gossip dell’Informazione (con in testa il direttore di Repubblica), il falso Profeta (Eugenio Scalfari), il Drago, la Donna (la Chiesa) e la Bestia (quest’ultima non ancora identificata). Manca solo l’Anticristo.

Non è una sensazione, dovuta agli effetti dell’infuocato sole agostano, di quest’afa umidiccia e appiccicosa che, specialmente qui al mare, genera intorno un’atmosfera quasi allucinatoria, evocatrice di visioni strane: abbiamo letto in questo periodo un centinaio di giornali, fra quotidiani e rotocalchi, e nell’insieme, nonostante alcuni successi del Governo, abbiamo colto segnali preoccupanti per il futuro del Paese.

Ciò che è emerso, dal mare delle nostre riflessioni (insieme alla Bestia), è soprattutto la mancanza di unità, che fa di noi ancora un “volgo disperso”, anzi, più volgo e più disperso che in passato, se si contano le parole volgari, le dispersioni e le perdite di tempo che si sono accumulate dal giorno della discesa in campo di un Cavaliere in cui gli esegeti della Sinistra hanno già prefigurato l’Anticristo.

Liberi non sarem se non siam uni, soleva dire Alessandro Manzoni, il quale dichiarò di avere scritto quel “brutto verso” per esprimere in maniera sintetica ed efficace il suo più grande ideale: l’unità di tutti gl’Italiani. Da quel verso si ricava anche il concetto che quando si tratta di un popolo, non del singolo individuo, la libertà non è un diritto primario, e che un popolo che non sia unito e concorde  non è nemmeno un popolo. Insomma, prima l’unità, poi la libertà. Come dire che se non siamo uniti non abbiamo il diritto di invocare la libertà, compresa quella di stampa. Il che non significa che tutti debbano pensarla allo stesso modo, significa che si può essere uniti anche nella diversità di vedute e di comportamenti, ma nel rispetto reciproco e in vista di un bene comune. Essere uniti significa riconoscere tutti insieme certi valori e certi simboli fondamentali, come una stessa bandiera, una stessa lingua e uno stesso inno nazionale: “una d’arme, di lingua, d’altar”: così Manzoni concepiva la patria.

Idem sentire: è questo che manca al nostro Paese. Una unità che leghi tutti, non due o tre partiti, in una visione coerente e in una prospettiva lungimirante nell’interesse dell’intero territorio nazionale, non di questo o di quel campicello. Anche se, bisogna riconoscerlo, in mancanza di una unità nazionale e di fronte al pericolo di uno sfascio totale i regionalismi hanno una loro giustificazione: popolazioni che lavorano, e lavorano per amore del lavoro e della comunità, hanno il diritto di raccogliere i frutti della loro fatica senza che essi vadano dispersi laddove, perlopiù, regnano l’ozio, il menefreghismo, il clientelismo, il ricatto mafioso e così via. Come dire: “Cari politici, mostrateci di essere tutti uniti e concordi, lavorando ciascuno nell’interesse e per il bene del Paese, e noi non parleremo più di autonomismi, leghismi e indipendentismi di sorta”.

Dov’è dunque questa unità? Dov’è, negli Italiani, il sentimento di appartenenza ad una stessa comunità? Dov’è l’amor di patria? Guardiamo alla nostra storia, alle nostre radici, quelle genetiche e quelle geografiche: siamo un miscuglio, un incrocio di popoli e di razze di tutti i tipi e di tutti i colori, e ciononostante continuiamo a proclamarci orgogliosamente eredi degli antichi Romani e a credere che in noi scorra sangue latino. Come dire che la Roma di oggi è fatta di romani.

Ma le nostre divisioni (siamo infatti divisi in tutto) possiamo farle risalire alla composizione multietnica della popolazione romana già ai tempi dell’Impero e alla sua conseguente divisione in Impero romano d’Occidente e Impero romano d’Oriente, con la “tetrarchia”, cioè la divisione in quattro parti, fra imperatori e cesari: Massimiano e Costanzo Cloro in Occidente, Diocleziano e Galerio in Oriente. Quello sfascio fu la conseguenza di una crisi politico-morale dovuta al venir meno delle antiche e austere virtù e dello spirito di partecipazione al bene comune. Da lì le invasioni barbariche, a cui seguì nel tempo l’occupazione di altri popoli stranieri, fra i quali molto contribuirono alla mancata realizzazione di una nostra unità nazionale gli Spagnoli, la cui potenza allora era così notevole che gl’Italiani si dichiaravano “orgogliosi di farne parte”: uniti nell’orgoglio di essere soggetti allo straniero. La Spagna, intanto, invece di far prosperare le ricchezze esistenti nel nostro territorio, pensava solo a consumarle. Un detto popolare affermava che gli Spagnoli in Sicilia rosicchiavano, a Napoli mangiavano e a Milano divoravano. Quale coscienza di unità potevano avere allora gl’Italiani?

Ora è lecito domandarsi: Se l’unità d’Italia “s’ha ancora da fare”, come sperare che possa realizzarsi con gli immigrati quando saranno diventati decine di milioni? La faranno loro l’unità (la propria, non quella del nostro Paese). Un illustre politico democristiano ha dichiarato: “Se non c’è questa unità, è meglio prenderne atto e dividerci consensualmente”. In due, però, Nord e Sud: il centro decida lui dove collocarsi.

“L’Italia è un’espressione geografica”, dichiarò Metternich: si può discutere sul vero intento che indusse il grande statista a pronunciare quella frase e sul suo significato, ma è evidente il riferimento alla mancanza di unità degli Italiani. Francesco Crispi, l’“uomo di ferro”, l’“uomo del destino”, deplorò un giorno alla Camera l’impossibilità di costituire in Italia un governo qualsiasi a causa delle “risse fra i partiti”, della “disgregazione della compagine nazionale”, della “annebbiata coscienza dell’unità e della stessa ragion d’essere della patria”, e quanto al governo degli ultimi tre anni disse che “aveva nociuto all’Italia peggio che una rotta campale”. Cos’è cambiato da allora? Quanti governi abbiamo avuto dal 1945 a oggi? Tanti quanti nessun’altra nazione al mondo. E’ questa una prova di unità? Governare gl’Italiani è difficile e spesso addirittura impossibile perché gl’Italiani si governano da sé, sempre fedeli al “proprio particulare” di Guicciardini. Sotto questo aspetto la nostra è la più grande e democratica forma di autogoverno che esista sulla faccia del pianeta, la realizzazione di un sogno antico, l’utopia che si fa realtà.

Quanto alla libertà l’abbiamo saccheggiata in tutti i modi e in tutti i campi possibili, sino ad ubriacarcene, col consenso e la generosità (e l’incoscienza) di coppieri che ce l’hanno elargita senza risparmio e senza alcun ritegno. E dove siamo arrivati? Un esempio ce l’ha offerto La 7: “Ma come, non parli più?”. “Sul gobbo non c’è scritto più niente!”. “E tu non sai dire nulla se non leggi sul gobbo?”. “Sì: ‘Stronza!’”.

Ricordiamoci sempre a quale prezzo abbiamo conquistato la libertà, affinché non rinasca davvero ancora una volta la “mala pianta” a cui accenna Platone.

Governo e opposizione, maggioranza e minoranza: sarebbe ora di cambiarle queste parole, che pure sono fonte di divisione e la fomentano ancora di più. Ragioniamo. Chi raccoglie un maggior numero di voti governa. Ma che cos’è uno scarto di due o tre milioni di voti su trenta o quaranta milioni di elettori (o meglio di votanti), quando nelle elezioni successive quello scarto si rovescerà? E gli astenuti? Da quale parte li mettiamo? Si governi allora insieme, responsabilizzando tutti, chiamando tutti a collaborare, e non ci saranno più scusanti per nessuno, e tutti i cittadini si sentiranno rappresentati nel governo della cosa pubblica, come i membri di una stessa famiglia, e non ci saranno più delegittimazioni, criminalizzazioni, colpi di mano o di testa e operazioni di “bassa macelleria”. Facciamola così l’unità. E saremo anche veramente liberi. Perché non si può essere liberi quando si covano, costantemente e ossessivamente, l’inquietudine, il rancore, il livore, la rivalsa, l’ansia di riprendere il potere, sentimenti che turbano gli animi impedendogli di essere obiettivi e in pace con gli altri e con se stessi, e di avere un governo stabile, operoso, tranquillo e duraturo. Come non si può essere liberi quando si segue un impulso egoistico o ci si isola dalla comunità di cui si è parte, nella convinzione, errata, che soltanto così sia possibile realizzarsi, mentre la vera realizzazione è nella sintesi, nella fusione e nell’abbraccio totale di tutti, in poche parole nella collettività, e per chi è saggio nell’umanità. Noi siamo veramente liberi quando ci sentiamo parte viva e operante di una comunità, il cui progresso è il nostro stesso progresso. Qui risiedono l’unità, la concordia, l’ordine e l’armonia. Un popolo è libero non quando e perché può agire contro una legge o contro chi lo governa, ma quando e perché ama e rispetta spontaneamente l’autorità dello Stato che lo rappresenta e che lui stesso si è eletto.

Eppure ci sono state città che hanno offerto testimonianze di convivenza civile e responsabile veramente esemplare (e giusto in questo ambito, forse, è possibile presso di noi l’unità). Nella Firenze del Rinascimento (di Lorenzo il Magnifico, di Leonardo e di Michelangelo) non si costruiva edificio, non si dipingeva o scolpiva una figura o non si scriveva una poesia senza che il popolo intero non vi sentisse dentro la sua partecipazione. Per i fiorentini ogni opera d’arte conteneva in sé sola tutta la città. A Firenze nemmeno gli odi più violenti delle fazioni in lotta riuscivano a far dimenticare agli abitanti di essere parte di una medesima famiglia. Ogni cittadino sentiva spontaneamente l’obbligo di collaborare personalmente al bene pubblico, senza l’intervento di estranei. In Firenze, come nell’Atene di Pericle, l’impulso popolare non giunse mai a determinare un potere di lunga durata in questa o in quella fazione: arrivava sempre il momento in cui l’equilibrio veniva ristabilito con l’affermarsi di un avversario. Un bell’esempio di democrazia dell’alternanza. La grande forza di Firenze era la capacità di mettere in opera e sviluppare in modo armonico ed equilibrato tutte le potenzialità dei cittadini. Quanto più il resto dell’Italia si frantumava, tanto più cresceva in Firenze la forza di coesione dei suoi cittadini. E non è questo che sta accadendo oggi con la Lega? Di chi la colpa, di chi la responsabilità?

Dante e Farinata, nel X canto dell’Inferno, offrono la testimonianza di un tale rispetto reciproco e di un tale amore per la patria comune che alla fine del loro dialogo non si sa chi dei due ne esca “vincitore”. E’ qui che si misura la vera grandezza dell’uomo. L’amore per la patria comune noi lo abbiamo soltanto a parole. Si può essere divisi, ma quando sono in discussione il bene e il futuro del Paese bisogna procedere uniti e concordi.

“A Firenze”, ha scritto Machiavelli, “in prima si divisono intra loro i nobili, di poi i nobili e il popolo, e in ultimo il popolo e la plebe; e molte volte occorse che una di queste parti, rimasa superiore, si divise in due”. Tuttavia – aggiunge il grande storico – quelle divisioni, che avrebbero annientato la più potente città, resero Firenze sempre più salda e più forte, “tanta era la virtù di quegli cittadini e la potenza dello ingegno e animo loro a fare sé e la loro patria più grandi”.

La Storia è maestra ma senza scolari, diceva amaramente Paolo Orano. Ci ha lasciato tante di quelle testimonianze, di onestà, di rettitudine, di buon governo, capaci di conquistare anche gli animi più insensibili e più refrattari, se solo le conoscessero. Ma chi vi guarda, chi le ricorda? Plutarco, nei suoi Consigli ai politici, racconta che quando qualcuno lo criticava perché lo vedeva intento a misurare una tegola, a trasportare pietre o calce impastata, ribatteva: “Fabbrico non per me ma per la patria”. Questo dovrebbero pensare tutti gli imprenditori edili, i costruttori abusivi che badano solo al proprio guadagno, tutti i committenti, politici e non politici, che dànno in appalto lavori ad artigiani o ad artisti compiacenti che spesso sfigurano il volto della città. Dall’altra parte ogni uomo politico dovrebbe condurre una vita, sia pubblica che privata, trasparente come il vetro. Come Livio Druso, un tribuno della plebe, il quale, essendosi un artigiano offerto, per cinque soli talenti, di orientare e disporre diversamente quelle parti della sua abitazione che erano esposte alla vista dei vicini, rispose: “Anzi, te ne darò dieci, se renderai trasparente tutta la mia casa, in modo che tutti i cittadini possano vedere come vivo!”.

E’ così che si dimostrano l’amore e il rispetto per la patria e per i propri connazionali. Se tutti i politici si comportassero come quel tribuno romano non ci sarebbero giornalisti che vanno a ficcare il naso nella loro vita privata, appostandosi giorno e notte davanti alle loro ville, violandone le mura coi teleobiettivi.

Ora anche a sinistra si sono accorti che l’Italia non è unita, o quantomeno rischia di perdere quella parvenza di unità che, secondo alcuni, si sarebbe realizzata con la Resistenza, quando è ormai appurato inequivocabilmente che in quella lotta il popolo, o certamente la maggior parte del popolo, stava alla finestra, o si comportava come una “massa grigia”, incolore, mentre inviti all’unità e alla concordia venivano dall’altra sponda, da Giovanni Gentile, per esempio (e questo è il vero motivo per cui l’hanno ammazzato).

Mercedes Bresso, mettendo le mani avanti di fronte alle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità che si terranno nel 2011, si è fatta un’accanita paladina dell’Unità d’Italia e dell’Inno di Mameli, in poche parole della Patria, criticando duramente “la furia distruttiva della Lega, che sta facendo di tutto per minare l’idea stessa di unità nazionale, dalla proposta di sostituire l’inno di Mameli con Va’, pensiero ai dialetti nelle scuole”. La Bresso ha così proseguito: “Possono sembrare sparate estive, ma corrispondono a un pensiero ben preciso, a un’idea burlesca e ingestibile di federalismo e a un’Europa-spezzatino realizzata a partire da Paesi deboli e divisi. Come sta avvenendo in Belgio”. Ergo, il nostro è un Paese “debole e diviso”.

Gl’Italiani non hanno nemmeno il senso della Storia, quando sono attaccati alla cronaca, alle beghe quotidiane, al gossip (come oggi si dice: non siamo autonomi nemmeno nella lingua), e via e via e via. Tutto questo significa appunto che gli Italiani non guardano alla Storia, che non ne hanno né il senso né il rispetto. Gli Italiani hanno il vizio di “ciarlare e motteggiarsi nei giornali, passano il loro tempo a deridersi scambievolmente, a pungersi sino al sangue, più che alcun’altra nazione, e per lo più in modo grossolano”, lamentava Leopardi, dopo che Petrarca – cinque secoli prima, non qualche diecina di anni – aveva invitato i governanti a “porre giù l’odio e lo sdegno”.

Ma i diffamatori, i calunniatori, le “anime belle” del giornalismo, della politica e della cultura credono che presso i posteri avranno maggior fama e maggior credito di chi per un quindicennio hanno diffamato, calunniato e criminalizzato, godendo di una libertà quale nessun giornalista, vignettista o scrittore ha mai conosciuto? Si indignano se uno li querela: ma non sono venute querele anche dalla loro parte? Parlano di aggressione: ma non sono venute aggressioni anche dalla loro parte? Sì, ma è diverso. Ecco: con la scusa della diversità, con la scusa di una presupposta superiorità culturale, morale, politica, artistica e letteraria (che hanno potuto sfruttare per sessant’anni solo perché gli avversari gliel’hanno praticamente riconosciuta), loro possono dettare lezioni e indignarsi, gli avversari no. Come alla fine della Grande Guerra, nel ’19: chi aggredì per primo? Chi insultava e malmenava i reduci, sputava sulla bandiera, occupava le fabbriche uccidendo i padroni, bruciava le fattorie ammazzando gli animali e inquinando gli abbeveratoi? Le squadre fasciste nacquero per difendersi dalla aggressione dei “sovversivi” (parole di Salvemini, Croce e De Gasperi: non è giusto guardare solo quello che successe dopo). Lanciare il sasso e nascondere la mano. Come nel Sessantotto: “Fate in modo che siano gli avversari a provocarvi!”. Questi sono i sistemi usati dalla Sinistra, che, dopo più di sessant’anni, va ancora avanti col paravento dell’antifascismo, della Resistenza e agitando lo spauracchio della dittatura.

“Feltri fomenta il caos!”. E loro cos’hanno fatto sino ad ora? E in questa immondizia, anche in questa immondizia, s’intromette pure la Chiesa, vescovi, cardinali e persino il Papa. Siamo andati al di là di ogni limite e di ogni decenza. Diciamolo chiaro: perché il pontefice difende il direttore di un giornale e condanna il capo del Governo? Quanti preti, vescovi, cardinali e pontefici hanno parlato bene dal pulpito mentre razzolavano male! Vogliamo raccontare le storie di tutti? Vogliamo andare sino in fondo? Vogliamo giocare a chi è più bravo a raccontare barzellette? Eccone una: Ieri qualcuno ha augurato al capo del Governo di ridursi a chiedere l’elemosina in mezzo alla strada. Oggi abbiamo visto il capo dell’Opposizione servire i piatti ai clienti in un ristorante. Non è proprio il massimo, ma può dare l’idea.

“Basta con questa barbarie!”, grida – adesso – qualcuno: che lungimiranza! Ci siamo abboffati sino alla nausea. Se non ci fossero a destra delle intelligenze autorevoli e assennate l’Italia sarebbe già spacciata da tempo, viste la pochezza mentale, la piccineria, la mancanza di senno, di buon gusto e di autocritica delle intellighenzie di sinistra. Sembrano degli alieni. Hanno difeso la verità! Quale verità? La verità delle verità, che sta sotto gli occhi di tutti, è che mentre il Centrodestra, sia pure a sbalzi e faticosamente, ha conseguito una sua identità e una sua unità, con un leader riconosciuto da tutti e con programmi chiari e ben caratterizzati, il Centrosinistra, da 15 anni, dalla famosa “discesa in campo” (della quale lo stesso Centrosinistra è responsabile), non ha alcuna identità e unità, né di vedute, né di programmi e contenuti, e la figura stessa del leader è messa perennemente in discussione. Le due coalizioni ricordano la cicala e la formica: la cicala per più di mezzo secolo non ha fatto che cantare (“Avanti popolo”, “Bella ciao”…), la formica, per quanto disprezzata, anche se ha faticato a trovare la strada giusta e i rifornimenti, bene o male ha lavorato. Questa è la verità. E i posteri guarderanno ai fatti, non alle parole.

 Settembre 2010

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