Main menu:

Articoli recenti

Archivio

Finìade (l’ira funesta di Fini)

 

 

Finìade

(in lavorazione)

  

Cantami, o Diva, del Missìde Gianfry

l’ira funesta, che infiniti a Silvio

colpi assestò, molte anzitempo al voto

rumorose incitò torme di eroi

e di cani e sciacalli avidi in pasto

il governo gettò (così di Oriana

l’alto presagio si adempì), da quando

primamente disgiunse aspra contesa

Gianfranco e Silvio che lo sdoganò.

E cosa mai li inimicò? L’invidia

e l’astio di Gianfranco: irato a Silvio,

destò nel Pidielle lo scompiglio

e l’idillio finì. Colpa di Umberto,

che fece a Gianfry e ai suoi seguaci oltraggio.

Della Padania all’eridanie sponde

era venuto a riscattar la terra

con molti voti. In man l’ampolla aveva,

e gli alleati supplicando, in primis

l’azzurro Cavaliere: “O Silvio”, disse,

“il consenso di tutti gli elettori

ti conceda finir la tua stagione

e la patria salvar dalla rovina,

ma tu pagami il prezzo col riscatto

della Padania”. Alla giusta preghiera

la maggioranza disse sì: doversi

la promessa onorare e il contentino

dare alla Lega col federalismo.

Ma la proposta al cuore di Gianfranco

non talentando, in guise aspre il superbo

gli torse il collo e minaccioso aggiunse:

“Ebbro, non far che simili proposte

né or né dopo io più ti senta fare,

ché forse a nulla ti varranno Silvio

o l’aiuto di Dio. La tua Padania

franca non sia se prima di costei

non si riscatti tutto il meridione.

Adesso va’, se vuoi ch’io non ti sbrani”.

Non si spaurì l’Umberto, e se ne andò

del risonante Po lungo la riva,

meditabondo e taciturno. Poi,

alla reggia venuto del re Silvio,

suo signore e suo dio, così pregò:

“Tu che tieni il comando e che possiedi

venti castelli, ad Arcore, ad Antigua,

a Cernobbio, in Sardegna, e sei di Mediaset

possente imperator, Silvio, m’ascolta.

Se di voti e di seggi il tuo leggiadro

Pidielle impinguai, se di vallette

e di escort ti offersi i fianchi opimi,

questo voto m’adempi: il pianto mio

paghi Gianfranco per le tue saette”.

Così parlò. L’udì Vittorio e scese

dal seggio del Giornale in gran disdegno,

agitando un dossier: mettean gli articoli

nelle mani all’irato un mormorio

al mutar dei suoi passi, ed egli simile

a fosca notte giù veniva. Giunto

al cospetto di Gianfry, un primo strale

liberò dalle pagine, che un tuono

terribile mandò, quindi la casa

di Montecarlo a colpir prese, poi

i contratti alla Rai del cognatino

e dell’anziana e casalinga suocera.

I quotidiani dell’opposizione,

la Repubblica, il Fatto, l’Unità,

coi loro fogli insorsero in difesa

di Gianfranco, che subito per loro

diventava ipso facto il paladino

della morale e della verità.

Per sei mesi volarono sul capo

del vispo presidente della Camera

gli strali quotidiani di Vittorio

e dei suoi coraggiosi redattori,

senza che mai giungesse una risposta

sulla losca vicenda. A parlamento

nel settimo chiamò le turbe Silvio,

ché gli pose nel cuor questo consiglio

il fido Sandro dalla rosea faccia,

dei moribondi suoi fatto pietoso.

Come tutti si furono disposti

(in prima fila, proprio a lui di fronte

sedeva il presidente della Camera):

“Caro Gianfranco, parliamoci chiaro”,

esordì con franchezza il Cavaliere.

“Quando fondammo insieme il Pidielle,

ne irridesti la nascita, esclamando:

‘Siamo giunti alle comiche finali’.

Da quel momento non hai fatto altro

che mettermi il bastone fra le ruote.

Adesso dici che ti sei pentito

e vuoi fondare un nuovo movimento.

Ebbene, dimmi, è vero o non è vero

quel che hai risposto in giorni non lontani

a chi già paventava un tradimento?

‘Abbiamo sciolto An con un congresso

molto sofferto per poter far nascere

il Pidielle, e io dovrei fondare

una corrente? Se fosse così

dovrebbero portarmi al manicomio’.

Ora, se non sei matto, certamente

saggio non sei, visto che, pur piazzato

sullo scranno più alto della Camera,

guidi un drappello di sabotatori

che vogliono affossare il Pidielle”.

“Il Pidielle non esiste più!”,

gridò Gianfranco. “Questo lo vedremo!”,

rispose secco il Cavaliere. “Ascolta,

italo Amleto mio, tu non puoi fare

un doppio gioco, intriso di ambizioni

personali, di trame e trabocchetti,

infarcito di pubblici proclami

e velenose aggressioni private.

Dopo un’estate in cui subdolamente

tranquillizzasti tutti gli alleati,

non esitasti a darmi uno schiaffone.

‘Il diritto politico del premier

di governare non può certo esimerlo

dal suo dovere costituzionale

di rispettare il capo dello Stato’.

Così dicesti. E qualche tempo dopo

ti esibisti in un’altra sceneggiata

nel noto fuorionda tragicomico

con un procuratore di Pescara:

‘L’uomo’, dicesti, ‘confonde il consenso

degli elettori con l’immunità,

il leaderismo con la monarchia’.

Parole irresponsabili. E gli applausi

al magistrato che si dà da fare

per provare che io avrei trattato

con Cosa Nostra? Non pago di questo,

aggiungesti che ormai io ero morto

– ‘mor-to’, dicesti, sillabando il verbo.

E’ vero o non è vero? Dimmi un po’:

intrallazzavi con l’opposizione

e al tempo stesso, spudoratamente,

giuravi e spergiuravi che un partito

finiano era soltanto una leggenda,

‘una leggenda metropolitana,

come quei coccodrilli che si aggirano

nelle sudice fogne di New York’.

E’ così che dicesti, testualmente.

Ma perché mi fai sempre il controcanto

con espressioni che non si convengono

a chi sta a capo di un’istituzione

che dovrebbe restare super partes?

Non puoi fare politica, Gianfranco,

o se vuoi farla ti devi dimettere

da presidente: o l’una o l’altra cosa”.

“Dimettiti, dimettiti!”, gridavano

i Pidiellini in coro, ripetendo

il noto ritornello del Giornale.

Al che Gianfranco, alzatosi e puntando

l’indice minaccioso contro Silvio:

“Che fai, mi cacci?”, esclamò furibondo.

“Le dimissioni sono una richiesta

che nasconde una logica aziendale!

Tu sei fuori di testa. Il Parlamento

non è una dependance del Governo:

governare significa comprendere

le ragioni degli altri. Tu comandi,

non governi”. A quel punto il Cavaliere

sulle punte dei piedi si levò

corruccioso. Offuscavagli la grande

ira il cuor gonfio, e come bragia gli occhi

fiammeggiavano sotto la sua fronte.

“Profeta di sciagure, mai parola

non ti uscì dalla bocca a me gradita.

Al maligno tuo cuor sempre fu caro

crear disastri al mio governo, e note

son le tue trame al par delle parole”.

Lo guardò bieco Gianfry e gli rispose:

“Anima invereconda, anima avara,

per amor del partito qui non venni

a cercar voti, io no, ché meco stavano

tanti compagni già, che a te non chiesero

ville o prebende, ma fatti concreti,

legalità, rispetto della legge.

Ma sol per tuo profitto, o svergognato,

noi fin qui ti seguimmo, ed ora, invece,

tu ci disprezzi e ingrato ci calpesti,

ed a me stesso di rapir minacci

dei miei sudori il meritato premio,

l’ambita presidenza della Camera”.

“Con cucina e soggiorno!”, gli gridò

una voce dal fondo, interrompendolo.

E un’altra: “Se vuoi fare il presidente,

fallo nel condominio del palazzo

di Montecarlo!”. A quel punto Gianfranco,

per non perdere il posto: “Ad ogni modo”,

disse, glissando, a tutta l’assemblea,

“fintantoché resteremo al governo

non faremo mancare i nostri voti”.

E il Cavaliere: “Non tentar, quantunque

nei detti accorto, d’ingannarmi: in questo

né gabbo tu mi fai, caro Gianfranco,

né persuaso al tuo parlar. Ricordi

cosa disse di te la bella Oriana?

‘O Vicepresidente del Consiglio,

Lei mi ricorda Palmiro Togliatti,

che fu lì lì per consegnar l’Italia

all’Unione Sovietica. Per questo

la Sinistra La tratta con rispetto,

anzi, con deferenza. Su di Lei

non rovescia quell’odio e quel veleno

che sparge invece contro il premier. Lei

è capace di tutto, astuto e gelido

calcolatore, non dice mai nulla

e nulla fa se non a suo vantaggio.

Come Togliatti, Lei si mostra un uomo

tutto d’un pezzo, ligio e coerente,

ma non è che un furbone, tiene il piede

in due staffe, fa il capo di un partito

che si dice di Destra e gioca a tennis

con la Sinistra. Fa il vice di Silvio

e sogna invece di detronizzarlo,

di mandarlo in pensione. Con quell’aria

quieta ed equilibrata che dimostra,

Lei è davvero assai pericoloso’.

Questo disse l’Oriana, ed è da allora

che tu mi remi contro. E così vai

cucinandomi, quando a fuoco lento

quando a fuoco di fila o sbarramento.

Chiedi a me chiarimenti sulla mia

vita privata, mentre tu non spieghi

il furto perpetrato al tuo partito,

ai tuoi tanti elettori con la casa

di Montecarlo. Mi fai proprio ridere.

Fai la morale a me! Tu vuoi distruggermi

non solo come capo del Governo.

Ma bada a te!”. “Che fai, minacci ancora?”,

gridò Gianfranco. E baldanzoso aggiunse:

“Un pauroso, un vil certo sarei

se fossi ligio ad ogni tua parola.

Ai tuoi comanda, non a me, che ormai

più disposto non sono ad obbedirti.

Ché se quella non fosse a cui comandi

spregiata gente e vil, tu non saresti

del popol tuo divorator tiranno,

e l’ultimo dei torti avresti or fatto.

Ma ben t’annuncio, ed altamente giuro:

giorno verrà che il tuo popolo intero

si svegli, e allora tu, pieno di rabbia,

il cuor ti roderai, ché sì villana

al più forte dei prodi onta facesti”.

“Vattene, dunque!”, esplose il Cavaliere.

“Scappa pur, se ti aggrada. Io non ti prego

di rimanerti. Al fianco mio si stanno

ben altri eroi, che mi daranno onore.

Ai tuoi fidi comanda, io non ti curo,

e l’ire tue derido”. Così disse

il Cavaliere. Al che Gianfranco: “Addio!”,

esclamò furibondo. “E’ molto meglio

ch’io me ne torni con i miei, piuttosto

che vilipeso adunator restarmi

di ricchezze e d’onori a chi m’offende”.

Allora nella sala: “Al voto, al voto!”,

gridarono a gran voce i Pidiellini.

Al che Gianfranco, a cui quella scissione

toglieva molta parte del consenso

degli elettori, disse: “No. Dimettiti,

caro Silvio, si faccia un nuovo patto

portando nel governo l’Udc,

e si completi la legislatura.

Recati al Colle, rimetti il mandato

e, ottenuto il reincarico, governa

con una maggioranza più sicura

e più compatta”. Al che Silvio: “Gianfranco,

per davvero mi credi così scemo

da pensare che il Capo dello Stato

mi rinnovi il contratto? Ormai conosco

il tuo gioco, e ti dico: non ci sto,

non mi dimetto, no, è il Parlamento

che me lo deve chiedere, non tu.

Con questa tua richiesta hai dimostrato

quanto sia sporco il gioco tuo. Ti muovi

non come presidente della Camera

ma come il capo di un partito. Mai

la politica scese tanto in basso.

Due sono i casi: o sei davvero ingenuo,

e non hai proprio il senso dello Stato

(e per questo non meriti l’incarico

che rivesti), o tu sei senza pudore.

Prendi per i fondelli il Parlamento,

col gruppetto dei tuoi tieni in ostaggio

le sorti del Paese. Ma non pensi

a quale paradosso andresti incontro

se, come chiedi, io mi dimettessi?

Tu ti presenti al Capo dello Stato

prima da presidente della Camera,

in pompa magna, con la limousine

e la scorta dovuta alla tua carica,

poi, nello stesso giorno, un’ora dopo,

ci torni come capo di partito,

sempre con scorta e con la limousine.

Questa manfrina calpesta ogni regola

della logica e delle Istituzioni.

E tu pensi che il Capo dello Stato,

nella sua grande e provata onestà,

possa stare al tuo gioco, sostenere

la propria parte come un burattino

nelle mani di un Fregoli sfrontato?

Solo se tu mi ammazzi io cederò.

Se è questo che vuoi fare, fallo presto.

Ma sono certo che non lo farai:

che ci guadagneresti? O forse credi

che la Sinistra, che ora ti lusinga

perché mi remi contro, andando al voto

possa darti davvero il tuo consenso?

Dove andrai, pover’uomo? A destra, ormai

non c’è spazio per te, l’opposizione

non ti rispetta, visto che non hai

coraggio, coerenza, dignità.

A cosa ti è servito tutto questo?

Hai fatto tanto chiasso e non sapevi,

tu, politico accorto e consumato,

quale sarebbe stato il risultato?”.

Gianfry, da nero ch’era sempre stato,

si fece rosso in volto: non sapeva

più cosa dire o rimbeccare, gli occhi

gli sprizzavano fuori dalle orbite,

un’ira cieca gli rodeva dentro.

Con passo svelto se ne andò, covando

nel suo cuore un ennesimo tranello

per metter fuori gioco il Cavaliere.

 continua

 Mario Scaffidi Abbate

Scrivi un commento