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La morte della cultura

LA MORTE DELLA CULTURA
Mario Scaffidi Abbate

La cultura è l’argomento di cui si parla in questi giorni, dopo la scomparsa di Dario Fo, che certi giornali celebrano come il campione per eccellenza della cultura. C’è chi ha scritto addirittura: “Dario non è morto. A morire oggi è la cultura” (Alessandro Bergonzoni). Saviano ha detto che l’Italia deve a Fo una “smisurata riconoscenza”, altri lo hanno definito “un esempio di libertà”, un “meraviglioso giullare che reinventò la parola”. Ma c’è anche chi lo considera un “giullare dissacr-attore contro la Patria e contro Dio”. E pensare che Fo stesso quando ricevette il prestigioso premio disse ai membri dell’Accademia svedese che assegnare il Nobel a un giullare era una provocazione.
In realtà la cultura non è morta di colpo, con l’uscita di scena di Dario Fo, era malata da diversi decenni, anzi, moribonda. Il 5 marzo del 1978 il Corriere della Sera riportava un articolo di Giovanni Testori che aveva come titolo “Accuso e condanno la cultura”, in cui il grande scrittore parlava della morte dei princìpi e d’ogni rigore morale, un argomento di grande e sorprendente attualità. Testori esordiva chiedendosi chi mai, di fronte allo scempio che veniva fatto della cultura, avesse “fabbricato i modelli per questo desiderio di cecità, di demenza e di morte”. E proseguiva deplorando “il dilatarsi verso la massa d’una cultura senza più centri, senza più ragioni e senza più significati, una cultura sradicata e annichilente che, proprio nel momento della perdita d’ogni sua efficacia, nel momento cioè della sua definitiva resa e del suo definitivo sfascio, s’è trovata ad aver in mano gli strumenti di diffusione più potenti e, insieme, più capillari di cui mai era riuscita a disporre”. Il quadro, insomma, che Testori offriva allora della cultura era quanto mai desolante e privo di speranza.
Ora, che la cultura sia scesa al livello delle masse non è di per sé un fatto negativo, il guaio è che quella che prevale è la cultura della trasgressione, del sesso, del turpiloquio e della bestemmia. E’ la cultura della “diversità” (ciò che turba ed offende non è la diversità in sé, è la sua ostentazione). C’è chi dice che “dovremmo smetterla di stabilire che cosa sia meglio” e “lasciarci invadere dal flusso di energia che sale dal basso”. Noi non pretendiamo che vengano soffocate certe aspirazioni, chiediamo però che accanto alla cultura della banalità, delle cose ignobili e volgari, sia dato il giusto spazio alla cultura dell’intelligenza, delle cose nobili e pulite, alla cultura intesa come quel prodotto dello spirito che attraverso un’autonoma e organica rielaborazione delle conoscenze acquisite perviene ad un affinamento intellettuale, ad una elevatezza e profondità di pensieri e di sentimenti, ad una serenità e obiettività di giudizio, ad una visione globale ed equilibrata della vita e della Storia. E’ una cultura accessibile a chiunque (molti sono coloro che pur di umili origini l’hanno conseguita): ‘Chi ha gambe da salire salga’, diceva Giovanni Gentile, aggiungendo che distruggere le scale, per spianare la strada e livellare tutti, è un grave danno per la società.
Oggi nell’arte e nella letteratura c’è un appiattimento, dovuto in parte alla convinzione che tutto è relativo, che non esistono modelli di riferimento, che “uno sgorbio vale quanto la Gioconda”, sicché persino i più mediocri, di fronte ad un pubblico che applaude qualunque cosa e ad una critica compiacente e ruffiana (tutti sono “stupendi”, “eccezionali”, “mitici”, addirittura), si credono dei geni.
La cultura è un patrimonio che deve durare in eterno (guardiamo il mondo classico) non qualcosa che si esaurisce nel gusto di un momento, di cui domani non resterà nulla. Cosa insegna, oggi, la televisione? I Media non devono solo informare o intrattenere, devono anche formare, o dare il loro contributo alla formazione, per esempio, di una coscienza nazionale. E’ anche vero che questa situazione è dovuta al fatto che oggi mancano grandi scrittori, grandi filosofi, la figura tradizionale dell’intellettuale è scomparsa perché a un certo punto si è dimostrata non più credibile se non addirittura noiosa.
La colpa è anche delle case editrici. Vi sono editori (parlo di quelli più noti) che se tu gli porti un bel libro, interessante e ben scritto, lo rifiutano perché “c’è troppa cultura”, perché “la gente vuole libri semplici e snelli”, che si possano vendere facilmente come un prodotto… di bellezza. E per rendere il libro più appetibile tali editori non esitano a metterci le mani apportandovi modifiche, tagli, aggiunte in cui esprimono il proprio parere, anche se è l’opposto di quello dell’autore. Ebbene, quale contributo apportano questi editori alla cultura? Puoi pure avere prodotto un capolavoro ma se non sei Luciana Littizzetto (giusto per fare un nome) e non scrivi come scrive lei il tuo libro non si pubblica.
Ecco, è questa mentalità che deve scomparire, è l’eccessivo amore per il guadagno, per il consenso di massa che ha rovinato la cultura: meglio un guitto come Dario Fo o come Roberto Benigni (che anche se ci spiega Dante o la Costituzione più bella del mondo resta sempre un giullare) piuttosto che Manzoni, Verga o Tolstoi. Nel 2013 Mario Vargas Llosa, premio Nobel per la letteratura, ne La civiltà dello spettacolo (Einaudi) scriveva: “La nostra epoca, in accordo con l’inflessibile pressione della cultura dominante, che privilegia l’ingegno rispetto all’intelligenza, le immagini rispetto alle idee, lo humour rispetto alla gravità, la banalità rispetto alla profondità e la frivolezza rispetto alla serietà, non produce più artisti come Ingmar Bergman, Luchino Visconti o Luis Bunuel”. E ancora: “Chi è proclamato icona del cinema ai nostri giorni? Woody Allen, che sta a David Lean o a Orson Welles come Andy Warhol sta a Gauguin o Van Gogh nella pittura, o Dario Fo a Cechov o a Ibsen nel teatro”. Lo ha scritto sul Giornale Alessandro Gnocchi, chiosando: “L’intento di sottrarre la cultura alle élite per portarla al popolo poteva anche essere nobile ma qualcuno ha fatto il furbo e ne ha approfittato per sdoganare la superficialità. La cultura light è un tranello: trasmette al pubblico l’impressione fallace di essere all’avanguardia ma è soltanto alla moda”.