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Rivista – Cultura

www.culturaperiodico.eu

Comunicato a cura della redazione

20 MARZO 2008

Il prof. Mario Scaffidi Abbate lascia l’incarico di Direttore responsabile del periodico CULTURA (organo dell’Istituto Europeo per le Politiche Culturali e Ambientali) in seguito ad una serie di atti incompatibili con le norme che sanciscono i compiti, i diritti e i doveri del Direttore responsabile di un giornale, compiuti dalla direzione editoriale in relazione all’ultimo numero della rivista (n. 30), pubblicato senza che egli potesse prima prenderne visione.
Il professor Mario Scaffidi Abbate lascia anche la carica di Vicepresidente dell’Istituto Europeo per le Politiche Culturali e Ambientali, che ha cercato di tenere sveglio e pubblicizzare non solo con la rivista ma con suoi progetti destinati ai Programmi dell’Accesso e andati in onda sulla rete televisiva di Rai 1 (i filmati relativi al 25 maggio 2007 e al 14 febbraio 2008 sono visibili sul sito www.raiparlamento.rai.it DIECI MINUTI DI: di un terzo era prevista la messa in onda in aprile).
Ringrazio gli amici della Redazione, i lettori della rivista e gli altri che mi hanno scritto testimoniandomi la loro stima e il loro rincrescimento per le mie dimissioni. Quanto alla richiesta dei motivi che le hanno determinate ritengo giusto e doveroso rispondere. Questi, in breve, i fatti:

Alcuni mesi or sono il direttore editoriale, Andrea De Liberis, mi comunicò telefonicamente l’intenzione di modificare la veste tipografica della rivista e di avere a tale scopo incaricato un grafico, il signor Enzo Perilli. Ebbene, ho potuto prenderne visione solo a cosa fatta, quando il numero della rivista era già stato stampato. Non mi è stato perciò possibile neppure controllare gli articoli con le relative foto inseriti dalla direzione editoriale, salvo quelli che le avevo fatto pervenire con l’intesa che avrei revisionato il tutto prima che la rivista andasse in tipografia, come richiede il diritto-dovere del direttore responsabile di un giornale. Nulla: sono stato tenuto all’oscuro di tutto. Così mi sono trovato in mano la rivista nella sua nuova veste alla inaugurazione della mostra (allestita dall’Istituto), della quale dava notizia il consueto inserto, fra lo stupore degli amici, i quali non riuscivano a credere che io non avessi visto preventivamente né la nuova veste del periodico né i contenuti di gran parte degli articoli che vi erano pubblicati. E ancor più vivo fu il mio stupore quando, aperta e sfogliata la rivista, ho constatato che:

1) il direttore editoriale si era autonominato vicedirettore e al suo posto era subentrato – in qualità di direttore editoriale –  il grafico Enzo Perilli (anche se il dottor De Liberis nell’organigramma figura sempre come editore);

2) due miei pezzi relativi ad una recensione e alla notizia di un prossimo Convegno erano stati cestinati;

3) il mio editoriale (di cui non c’è traccia nel Sommario in copertina, dove pur sono elencate le varie rubriche) non portava più accanto al titolo, come di consueto, la mia foto e il mio nome (confinato in fondo alla pagina, in carattere piccolissimo, tanto in fondo che per poco non è stato tagliato dalla rifilatrice). Il titolo dell’editoriale, fra l’altro, appariva in caratteri minuscoli e molto più piccoli di tutti gli altri titoli, sotto i quali erano regolarmente riportati i nomi degli autori;

4) nel Sommario interno, accanto al titolo dell’editoriale (“Attenti a quei due”), appariva una vignetta con scritto “bla bla bla”, in netto contrasto con la serietà del testo e con la dignità del mio linguaggio e della mia persona.

A coronamento di tutto ciò (per non parlare degli errori che non mi è stato possibile correggere), il direttore editoriale alla inaugurazione della mostra di pittura (dell’artista Lisa Zanatta Pistorio) mi ha impedito di prendere, come di consueto, la parola per presentare il nuovo numero della rivista. Alle mie rimostranze l’organizzatore della mostra, Antonio Maria Pivetta, ha risposto di aver ricevuto ordini in tal senso dal dottor Andrea De Liberis.

Grazie ancora, cari amici. Forse un giorno o l’altro in questo sito (che non è di proprietà dell’Istituto Europeo per le Politiche Culturali e Ambientali) troverete la storia del “calvario” di un direttore responsabile che per puro e disinteressato amore della cultura, per otto anni (caso unico nella storia di un giornale), ha svolto tutte le mansioni, allestendo da solo – al computer di casa sua – ogni numero della rivista, ricercando articoli e foto, battendo a macchina la maggior parte dei testi, correggendone gli errori, portando di volta in volta, come un galoppino, alla sede dell’Istituto le varie bozze della rivista per mostrarle al direttore editoriale, con sacrifici anche economici, rimettendoci sempre del suo, sostenendo le spese relative al materiale di cancelleria e alla spedizione di un congruo numero di copie a personaggi della cultura e della politica (compresi i membri del Parlamento Europeo), quando tutto ciò non competeva a lui.

Questo è l’ultimo mio editoriale pubblicato sull’ultimo numero della rivista CULTURA

Attenti a quei due!

“Le parole tue sien conte!”, cioè misurate, ponderate, dignitose: così dice Virgilio a Dante, invitandolo a parlare con Farinata, che si erge “dalla cintola in su” fuori da una delle tombe infuocate in cui sono collocati gli eresiarchi. E Farinata per prima cosa chiede al Poeta: “Chi fur li maggior tui?”. Non per sapere preventivamente di quale partito egli sia e come la pensi: Farinata ha “in gran dispitto” l’inferno, non l’avversario politico. Non apostrofa il suo intervistatore dicendogli: “Ma tu, che cosa sei?”. E quando Dante gli rivela di essere guelfo non risponde: “Io con te non ci parlo”. C’è piuttosto in quella sua domanda una certa malizia aristocratica, nel senso che Farinata è disposto a parlare solo a condizione che l’interlocutore, anche se di un partito avverso, sia alla sua stessa altezza. Spesso, infatti, la distanza culturale fra gl’interlocutori è tale che il dibattito diventa inutile, e lungi dal chiarire le idee le confonde ancora di più.
Dante e Farinata, insomma, offrono un bell’esempio di come debba svolgersi un dibattito. Anche se la regia è di Dante, che manovra sapientemente le fila con un equilibrio da grande moderatore. Il dialogo si svolge all’insegna del rispetto reciproco e della verità: ciascuno dice la sua, ma senza disconoscere e disprezzare l’opinione dell’avversario, secondo il principio che la ragione e il torto non si possono tagliare di netto e che il bene o il male non stanno mai interamente da una parte sola. Così se Farinata ricorda di aver disperso per due volte i nemici, Dante ribatte ch’essi tornarono “l’una e l’altra fiata”: ma nelle sue parole non c’è alcuna ritorsione, c’è solo l’amarezza che nasce dal ripensamento oggettivo dei fatti e della catena di odi e di violenze di una spietata lotta politica, che spesso mira all’eliminazione fisica dell’avversario. E se Dante rammenta a Farinata “lo strazio e il grande scempio che  fece  l’Arbia colorata  in rosso”, cioè la strage di  Montaperti, Farinata risponde: “A ciò non fui io sol… né certo sanza cagion con li altri sarei mosso” (giustificando quel gesto col desiderio suo e dei suoi di ritornare in patria). Ma a proprio vanto (e questo è un grande merito che Dante riconosce al suo avversario) aggiunge fieramente: “Ma fui io solo, là dove sofferto fu per ciascun di tórre via Fiorenza, colui che la difesi a viso aperto”. Ed è sua l’ultima parola.
Si chiude così questo esemplare “faccia a faccia”, in cui nessuno dei due interlocutori ha la presunzione di essere l’alfiere della giustizia e della verità: quel che più conta, infatti, per entrambi, è l’amore per la patria comune. I duellanti si affrontano, ascoltandosi con attenzione e con rispetto, ponderando le parole come si conviene a dei galantuomini, anche se di partiti diversi, in un confronto aspro ma civile, tanto che alla fine non si sa chi dei due sia il “vincitore”.

***

“Gli italiani passano il loro tempo a deridersi scambievolmente, a pungersi fino al sangue, più che alcun’altra nazione, e per lo più in modo grossolano. Come altrove il maggior pregio è il rispettar gli altri, così in Italia la principale e la più necessaria dote di chi vuol conversare è il mostrar colle parole e coi modi ogni sorta di disprezzo verso altrui… Questo tipo di conversazione è manifesto quanto debba disunire e alienare gli animi di ciascuno da ciascuno, e quanto per conseguenza sia pestifera ai costumi divenendo come un esercizio per una parte, e per l’altra uno sprone dell’offendere altrui e della inimicizia verso gli altri, così che le conversazioni d’Italia sono un ginnasio dove colle offensioni delle parole e dei modi s’impara per una parte e si riceve stimolo dall’altra a far male a’ suoi simili co’ fatti.
E questa è la somma della pravità e corruzion de’ costumi. Laddove presso l’altre nazioni la società e conversazione è un mezzo efficacissimo d’amore scambievole sì nazionale che generalmente sociale, in Italia la società stessa, così scarsa com’ella è, è un mezzo di odio e disunione, accresce, esercita e infiamma l’avversione e le passioni naturali degli uomini contro gli uomini”.

(Leopardi, dal Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani)

D’ANNUNZIO E LA MISTICA DELLA PAROLA

Ci voleva L’amante guerriero di Giordano Bruno Guerri (di cui ho avuto notizia dal “Giornale”, ma che  non ho ancora letto) per sollecitare gl’Italiani ad accostarsi o riaccostarsi a D’Annunzio con l’animo sgombro da ogni pregiudizio. E’ ciò che io ho fatto per più di trent’anni coi miei studenti, se non unico certamente uno dei pochissimi fra tutti gli insegnanti.
Molti di coloro che si sono occupati di d’Annunzio – vuoi per faziosità politica, per ignoranza o perché privi di sensibilità e incapaci di penetrare nelle pieghe profonde dell’arte e dell’anima umana – più che la luce della sua poesia, hanno cercato, con spasmodica voluttà, le ombre della sua vita privata, quando addirittura non ne  hanno insultato l’aspetto fisico, come Manlio Cancogni, che lo ha definito “goffo e dal sedere di anno in anno più rotondo”, un “cafone”, un “rudere privo d’interesse e di significato”, un “mobile tarlato e inutilizzabile, che si dovrebbe mandare in cantina”, un “fenomeno grottesco”, che ispira “un’immediata istintiva ripugnanza non disgiunta da un senso irresistibile di comicità” (il Giornale, 21 marzo 1988), o come Beniamino Placido, che irridendo alla sua “vocina fessa”, gli ha dato del “cretino”, specificando che “i termini stupido, imbecille e cretino non sono affatto equivalenti, perché Carducci era stupido, Pascoli era imbecille, mentre d’Annunzio era proprio cretino” (la Repubblica, 26 settembre 1991).
Philippe Jullian, grande estimatore di d’Annunzio, trovandosi in Italia per scriverne la biografia, esclamava: “Verità al di là delle Alpi, menzogna al di qua”, aggiungendo: “E’ incredibile che sulle pareti del Campidoglio non esista una targa a ricordare qualche famoso discorso del Poeta, che la maggior parte delle grandi città, fra cui Milano, abbiano tolto dalle loro piazze la dedica a Gabriele D’Annunzio, che a Roma un solo viale che sale al Pincio porti il suo nome. Questo caso unico di un paese che si vergogna del suo più grande scrittore ne riflette vistosamente la mediocrità”.
Solo fra gli stranieri d’Annunzio ha sempre trovato quel riconoscimento e quel consenso unanimi che gli sono mancati in Italia. Fra le tante corone che dopo la sua morte sono state deposte al Vittoriale ce n’è una di Romain Rolland, che reca questa scritta: “Fu, nel declino del XIX secolo, in un’Italia spenta e incolore, un’apparizione indimenticabile. Risvegliò la terra della Bellezza”.
Se si vuole esplorare e giudicare obiettivamente l’opera di Gabriele d’Annunzio non si può prescindere da una verità fondamentale, che cioè per lui la parola è essenzialmente un suono, un fatto musicale. “In principio era il Verbo” (così recita il Vangelo di San Giovanni), cioè la Parola quale suono puro, dalla cui scomposizione, come dalla vibrazione di una corda, sarebbero derivati una serie di suoni, i quali, variamente mescolandosi fra loro in una innumerevole quantità di combinazioni, avrebbero dato origine alle cose e alle parole stesse.
“Nessuna cosa esiste dove manca la parola”, diceva Stefan George. E Martin Heidegger si domandava: “Che cos’è la parola per avere tale potere?”. E ancora: “Che cos’è la cosa per aver bisogno della parola per esistere?”.
A buon diritto, dunque, d’Annunzio affermava: “C’è una sola scienza al mondo, suprema: la scienza delle parole”. E aggiungeva: “Chi conosce questa, conosce tutto, perché tutto esiste solamente per mezzo del verbo”. E ancora: “O poeta, divina è la Parola; / Ne la pura bellezza il ciel ripose / Ogni nostra letizia e il Verso è tutto”.
Per d’Annunzio la parola ha la stessa funzione di un mantra, quella cioè di fargli sentire il divino che è in lui, che è in tutti noi. Che meraviglia, quindi, e quale rimprovero si può muovergli se ha fatto della parola lo strumento fondamentale della sua poesia?

“Parola, o cosa mistica e profonda;
ben io so la tua specie e il tuo mistero
e la forza terribile che dentro
porti e la pia soavità che spandi!”

Se d’Annunzio – come dice il Flora – “quasi ignorò la parola in cui si compone la sostanza speculativa e logica delle cose” fu perché delle cose egli ebbe – e lo sentì profondamente nell’anima, oltre che nei sensi – una visione armonica e totale, in cui tutti i contenuti sono “conflati”, mescolati insieme, e come perduti.
Per d’Annunzio, come e più ancora che per Baudelaire, la natura è un tempio, a cui si accede con religioso silenzio, spogliandosi del pensiero, ma per poterlo cogliere nella sua purissima essenza, nei suoi più profondi e segreti significati.

“Taci. Sulle soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che  parlano gocciole e foglie
lontane”.

D’Annunzio avvertì come pochi la presenza di Dio nella natura, si sentì egli stesso trasumanare – diversamente da Dante ma forse in modo più genuino – soprattutto nell’ora del meriggio, che fin dai tempi più antichi ha sempre destato negli uomini, in quell’atmosfera sospesa e rarefatta dalla calura estiva, il senso terribile del numinoso: “… E la mia forza supina si stampa nell’arena, diffondesi nel mare; e il fiume è la mia vena, il monte è la mia fronte, la selva è la mia pube, la nube è il mio sudore. E io sono nel fiore della stiancia, nella scaglia della pina, nella bacca del ginepro: io son nel fuco, nella paglia marina, in ogni cosa esigua, in ogni cosa immane, nella sabbia contigua, nelle vette lontane”.
In nessuna lirica, di qualsivoglia poeta, c’è, come in Meriggio, una tale limpidezza e al tempo stesso una tale profondità di pensiero, una contemplazione assorta e insieme una partecipazione così viva e sentita. C’è espresso in un’armonia e in una musicalità di sentimenti e di forme, il mistero della vita, unitamente a un senso di ineffabile malinconia: l’estasi, infatti, perché tale è anche quella di d’Annunzio, non è felicità nel senso in cui comunemente s’intende: essa è, come dice Julius Evola, un “misto di beatitudine e di amarezza”.
Anche d’Annunzio, che pure si definisce “tecnico peritissimo”, avverte spesso l’insufficienza o l’incapacità della parola a descrivere appieno ciò che sente, perché “a risponder la materia è sorda”. E come della parola, così avverte l’impaccio della carne, che pur gli permette di elevarsi a quelle altezze, perché è in virtù della carne, è in virtù della materia che lo spirito s’innalza e acquista maggior forza e maggior valore. Da qui il tormento del Poeta, che come in tutti i poeti, è sempre il tormento di dire, da qui la ricerca, faticosa, esasperata, di quella parola di cui egli pur sente il suono dentro di sé ma che in realtà non trova nel linguaggio umano un’espressione, una formula corrispondente.
Indubbiamente il poeta è, rispetto agli altri artisti, svantaggiato, dovendo servirsi di uno strumento che è legato alla logica, senza la quale il suo sarebbe un discorso sconclusionato, un insieme di suoni senza significato. E tuttavia, come osserva il Romagnoli, pur meno diretta ed efficace della pittura, che riesce più agevolmente a tratteggiare i fantasmi pittorici, e meno della musica, capace di seguire docilmente le infinite ondulazioni degli impulsi profondi dell’anima, la parola ha un vantaggio di fronte alla musica e alla pittura, perché le congiunge in sé, dando il volo della musica alle immagini della pittura. “Anch’io / pingo e spiro a’ fantasmi anima eterna”, dice orgogliosamente il Foscolo nelle Grazie, rispondendo al Canova che aveva scolpito la famosa statua di Venere.
In molti passi delle sue opere d’Annunzio stesso accenna al tormento e al processo della parola che si svolge dentro di lui. Scrive nel Venturiero senza ventura: “Talvolta è in noi una verità ancora informe che vuol essere soccorsa per venire alla luce: una verità ancor mescolata al nostro sangue, ai nostri muscoli, ai nostri istinti”. E nella Leda: “Vi sono parole che sembrano crearsi nell’aria indistinta e non portare la forma delle labbra note. Vi sono le parole delle cose e non soltanto le lacrime delle cose, reali le une e le altre. Udendo quelle, non le attribuimmo a una gola amica ma a uno spirito che dimorasse in quel luogo o vi passasse”. E parla dei rapporti fra la musica e la malinconia, uno stato d’animo frequente in d’Annunzio, come la noia leopardiana, laddove il Poeta la definisce “il più sublime dei sentimenti”.
Nel suo fondo e a suo modo d’Annunzio fu un mistico, un veggente che ascolta la voce di Dio, quale essa si esprime senza svelarsi, cioè al di là di ogni contenuto. Ed è quella la voce più schietta, la più autentica e universale. Qualunque contenuto riguarda propriamente l’aspetto umano, e perciò temporaneo, di Dio. Al di là del relativo e del contingente non c’è che il simbolo, ed è a questo che d’Annunzio, come e più degli altri poeti del suo tempo, volle e seppe attingere nella misura più piena.
E’ certo sorprendente come in d’Annunzio la parola, che pure è tutto per lui, finisca con lo scomparire, dissolvendosi nella pura musicalità: tale è il suo magico potere, e tale è l’arte del Poeta. “La parola che scrivo nel buio”, dice nel Notturno, “perde la sua lettera e il suo senso. E’ musica. Le ore passano. La musica è come il sogno del silenzio”.  E ancora: “A volte i suoni e i frammenti dei suoni e le pause diseguali si confondono in una sola armonia che si porta con sé la mia tristezza e qualcosa di ancor più triste che la mia tristezza”. In quel buio, dice ancora il Poeta, ogni cosa “perde la sua sostanza e si tramuta in un sentimento che è musicale come le cadenze delle lamentazioni”. Ma forse l’immagine più bella, che sintetizza il senso dell’armonia e del mistero avvertito da d’Annunzio, è in quel passo in cui egli si descrive come un “poeta seduto in riva al fiume del tempo”, ad ascoltare “la melodia del perpetuo fluire”.
“La vera vita di Gabriele d’Annunzio”, ha scritto Ugo Oietti parecchi anni fa, “s’ha ancora da scrivere, con fedeltà all’uomo e al poeta, mostrando che non sono due, e opposti, ma uno, e coerente… Questo fedele dell’amore ha sofferto per l’amore quanto e più d’un altro uomo, perché, a scrivere, le sue stesse parole precise e concrete gli aumentavano il rovello… Ma dalle sue pene e dalle sue debolezze egli s’è sempre liberato sfuggendo verso l’alto, per riafferrare nell’altezza sul mondo il sogno della propria essenza divina, la capacità d’immillarsi e d’indiarsi a volontà, di trovare negli eccelsi un lampo di solare bellezza e di eternità”.

Mario Scaffidi Abbate


Editoriale del primo numero, luglio-settembre 2000

Mario Scaffidi Abbate

“Proprio della cultura è suscitare nuove idee
e bisogni meno materiali, formare una classe
di cittadini più educata e civile, metterla in
comunicazione con la cultura straniera,
avvicinare e accomunare le lingue”

(F. De Sanctis)

Ispirandosi al Conciliatore ottocentesco, la nostra rivista vuole contribuire a raccogliere sotto la stessa bandiera tutti coloro che hanno a cuore la cultura. Abbiamo assunto il motto del celebre foglio azzurro a significare lo spirito concorde che deve guidarci pur nella diversità delle nostre fedi, perché “dall’esporre varie opinioni nasce il trionfo di quelle che sono più vere”. Siamo entrati nell’Europa “comune”: se vogliamo restarvi a pari titolo con le altre nazioni e non essere più snobbati da loro, cerchiamo di avere una patria e una cultura che siano davvero comuni, in cui tutti possiamo riconoscerci, senz’alcuna discrimina-zione.
Pur rispettandone i diversi caratteri, noi vogliamo esaltare l’aspetto più alto della cultura, intesa come quel prodotto dello spirito che attraverso un’auto-noma e organica rielaborazione delle conoscenze acquisite perviene ad un affinamento intellettuale, ad una elevatezza e profondità di pensieri e di sentimenti, ad una serenità e obiettività di giudizio, ad una visione globale ed equilibrata della vita e della Storia. E’ una cultura accessibile a chiunque (molti sono coloro che pur di umili origini l’hanno conseguita): “Chi ha gambe da salire salga”, diceva Giovanni Gentile, aggiungendo che distruggere le scale, per spianare la strada e livellare tutti, è un grave danno per la società.
L’attuale degrado della nostra cultura affonda le sue radici nella scuola, che se da un lato ha portato i giovani ad allargare i loro orizzonti sociali, dall’altro ne ha imprigionato le menti in uno schematismo ideologico settario e manicheo, li ha avvicinati alla massa, ma non li ha educati a guardare in alto, a sapere andare al di là del relativo e del contingente, e, quel ch’è peggio, invece di unirli li ha divisi.
Anche l’Informazione ha le sue colpe: la stampa, lungi dall’affinare le coscienze, le turba e le avvelena, la televisione sforna programmi (che si definiscono “amici”) in cui si aizzano i figli contro i genitori, in cui si cerca lo scontro e si continua a rievocare, rinfocolando odi e rancori, un passato che nel bene come nel male appartiene a tutti. La politica, da sereno gioco dialettico, si è trasfor-mata in un barbaro gioco al massacro, mirante alla eliminazione dell’avversario, quasi che Destra e Sinistra non fossero entrambe indispen-sabili alla dialettica e alla politica stessa.
Quella che oggi prevale è la cultura della trasgressione, del sesso, del turpiloquio e della bestemmia. E’ la cultura della “diversità” (ciò che turba ed offende non è la diversità in sé, è la sua ostentazione), è la cultura del pentitismo e del perdonismo: un altro alibi, soprattutto per i giovani.
C’è chi dice che “dovremmo smetterla di stabilire che cosa sia meglio” e “lasciarci invadere dal flusso di energia che sale dal basso”. Noi non preten-diamo che vengano soffocate certe aspirazioni, chiediamo però che accanto alla cultura della banalità, delle cose ignobili e volgari, sia dato il giusto spazio alla cultura dell’intelligenza, delle cose nobili e pulite: quantomeno sia rispettata la par condicio.
Anche nell’arte e nella letteratura c’è un appiattimento, dovuto in parte alla convinzione che tutto è relativo, che non esistono modelli di riferi-mento, che “uno sgorbio vale quanto la Giocon-da, sicché persino i più mediocri, di fronte ad un pubblico che applaude qualunque cosa e ad una critica compiacente e ruffiana (tutti sono “stu-pendi”, “eccezionali”), si credono dei geni. Bisogna separare il grano dal loglio, non confondere i fichidindia con le banane.

(dall’editoriale del primo numero, Anno 2000)

***

IL CAFFE’ NELLA

LETTERATURA

di Mario Scaffidi Abbate

L

a letteratura è piena di caffè. Parini nel Giorno elogia “la nettarea bevanda ove abbronzato / fuma ed arde il legume… / giunto da Moka, che di mille navi / popolata mai sempre insuperbisce”, Goldoni ne parla ne La bottega del caffè (“E’ veramente una cosa che fa crepar di ridere, veder anche i facchini venir a bevere il loro caffè”), Pananti si duole che “fra tutti uno solo non si diè / che mi offrisse una tazza di caffè”, Vin-cenzo Cuoco nel Saggio storico sulla rivolu-zione napoletana del 1799 scrive che un con-dannato a morte “prima di avviarsi al patibolo volle bevere il caffè”, Silvio Pellico in Memorialisti dell’Ottocento racconta che aven-do chiesto un caffè si sentì rispondere che era un oggetto di lusso, Leopardi in una lettera ammo-nisce di “trattare bene cotesti Signori, non solo col caffè”, Guido Gozzano chiede alla Signorina Felicita: “A quest’ora che fai? Tosti il caffè: e il buon aroma si diffonde intorno!”.

Pope nel Riccio rapito incluse due versi in difesa del caffè (“Il caffè rende saggi gli uomini politici, facendogli veder chiaro ciò che l’oscurità cela”), Bach compose una Cantata del caffè, ispirandosi ad un poema di Picandier (in cui si parla di un padre che cerca di togliere alla figlia il vizio del caffè), Michelet attribuiva al caffè le sue capacità creative, Jonathan Swift per scrivere doveva prendere il caffé, Balzac, che ne beveva a fiumi, quando scriveva teneva sempre a portata di mano, sulla scrivania, una caffettiera di porcellana, per acquisire, diceva, “quel carattere volubile tipico dei poeti” (ma fu proprio l’uso esagerato del caffè che gli accorciò la vita), d’Annunzio racconta che quando abitava alla Capponcina e restava segregato per mesi e mesi a lavorare prendeva “da dieci a quindici tazze di tè o altrettante di caffè (e durante i suoi voli, come scrive nel Notturno, si portava sempre dietro un “tubo” pieno di caffè caldo).

Anche Papini trovava nel caffè uno stimolante per la sua ispirazione, e però si ribellava all’idea di dover essere debitore di molte sue pagine a quella benefica bevanda. “S’io divento più acuto dopo due tazze di caffè”, scriveva in Un uomo finito, “allora una sciocca vergogna mi riempie l’anima ed ho il crudele sospetto ch’io non sia altro che una macchina cerebrale, che rende quel che ci si mette”. Per Kesten il caffè rappresentava “un’anti-camera della poesia”.

Anche i Caffè hanno ispirato poeti e scrittori. Fra le tante opere ricordiamo, oltre alla citata Bottega del caffè di Goldoni, Le cafè, o l’Ecoissaise, di Voltaire, andata in scena a Parigi nel 1760, in cui venne addirittura ricostruito il Procope; il Cafè di Jean Baptiste Rousseau e un inno di Carlo Innocenzo Frugoni, intitolato anch’esso Il Caffè. Molière, invece, nel Borghese gentiluomo, derise la moda delle “turcherie” che avevano preso piede a Parigi, Casanova diceva che per lui il Caffè era una necessità al pari di un’amante e di Venezia, Gasparo Gozzi dei Caffè veneziani scriveva: “Non ti par di vedere una bottega, ma piuttosto un delizioso spettacolo da teatro”, Stendhal diceva che avrebbe cambiato un’amante piuttosto che un Caffè, Riccardo Bacchelli che non avrebbe cambiato un Caffè neppure con un seggio di senatore. Per Stefan Zweig “il Caffè è il luogo più adatto per uniformarci a tutto ciò che è nuovo, una specie di club democratico, accessibile a chiunque”, per Montesquieu “è l’unico luogo dove il discorso crea la realtà, dove nascono piani giganteschi, sogni utopistici e congiure anarchiche, senza che si debba lasciare la propria sedia”. E Kesten scriveva: “Quali giochi fantasmagorici delle lettere, al Caffè! Quanti sogni umani, a metà fra la bettola e il Parnaso! Quanti nani e giganti! Piazza di mercato, bordello, tempio, borsa, prato, ma con marmi, con pastori e seducenti pecore! Quale scena da commedia, o campo di battaglia d’inariditi o vivi ideali un Caffè letterario!”.

Caffè, quanti ricordi! “Caffè di plebe, dove un dì celavo / la mia faccia, con gioia oggi ti guardo”, scriveva Umberto Saba. E Diego Valeri: “E i cieli d’oro della fantasia / schiusi in fondo alle sale dei concerti, / e negli specchi dei Caffè deserti / i paesaggi della nostalgia”. In molti romanzi il Caffè fa da scenario, come il Café Anglais di Parigi nella Comédie humaine di Balzac, in Nana di Zola, nella Education sentimentale di Flaubert, in Du coté de chez Swann e in A’ l’ombre des jeunes filles en fleur di Proust, in Pot-Bouille di Maupassant.

Bargellini diceva che “non si potrebbe scrivere una pagina di storia né politica né letteraria né artistica dell’Ottocento senza citare il nome di un Caffè”. E aggiungeva: “Nello spazio di un secolo i Caffè presero il posto e l’importanza dei club politici e dei ridotti accademici. Succeduto alla soporifera cioccolata bene accetta ai palati aristocratici e alle sieste dei salotti settecenteschi, il caffè diventò l’eccitante preferito dagli agitatori liberali, tanto che si potrebbe pensare, se i movimenti politici avessero gusti spiccati, che la reazione sorseggiasse cioccolata, mentre la rivoluzione beveva caffè”. I Caffè, infatti, furono “la caffeina delle rivoluzioni” e spesso luoghi decisivi per il destino culturale della vecchia Europa.