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Conferenze e Dibattiti

D’ANNUNZIO E LA MISTICA DELLA PAROLA

E’ in questa chiave che va letta – così come la Creazione –

l’opera poetica del grande Pescarese

di Mario Scaffidi Abbate

Se si vuole esplorare e giudicare obiettivamente l’opera di Gabriele d’Annunzio non si può prescindere da una verità fondamentale, che cioè per lui la parola è essenzialmente un suono, un fatto musicale. “In principio era il Verbo” (così recita il Vangelo di San Giovanni), cioè la Parola quale suono puro, dalla cui scomposizione, come dalla vibrazione di una corda, sarebbero derivati una serie di suoni, i quali, variamente mescolandosi fra loro in una innumerevole quantità di combinazioni “che la bocca non può dire e l’orecchio non può udire”, avrebbero dato origine alle cose e alle parole stesse. Anche i sentimenti e le sensazioni sono riconducibili ai suoni: in generale i suoni gravi, lenti e deboli d’intensità, esprimono i sentimenti collegati col dolore, mentre i suoni acuti, forti e vivaci, esprimono i sentimenti collegati con la felicità.

La mitologia indù offre una sintesi della realtà sensibile originata dal suono laddove ad ogni nota musicale fa corrispondere un colore, e, non potendosi questo concepire come un fenomeno a sé stante, gli associa un animale, per cui il do suona verde-pavone, il re rosso-allodola, il mi oro-capra, il fa biancogiallo-airone, il sol nero-usignolo, il la giallo-cavallo, il si tutticolori-elefante.

“Nessuna cosa esiste dove manca la parola”, diceva Stefan George. E Martin Heidegger si domandava: “Che cos’è la parola per avere tale potere?”. E ancora: “Che cos’è la cosa per aver bisogno della parola per esistere?”

A buon diritto, dunque, d’Annunzio affermava: “C’è una sola scienza al mondo, suprema: la scienza delle parole”. E aggiungeva: “Chi conosce questa, conosce tutto, perché tutto esiste solamente per mezzo del verbo”. E ancora: “O poeta, divina è la Parola; Ne la pura bellezza il ciel ripose Ogni nostra letizia e il Verso è tutto”.

E’ noto che i mistici orientali riescono a stabilire un contatto con l’assoluto, o ad avvertire il divino, recitando dei suoni particolari, chiamati mantra, di cui l’AUM è quello fondamentale, con cui Dio avrebbe dato inizio alla sua manifestazione. Bene, per d’Annunzio la parola ha la stessa funzione, quella cioè di fargli sentire ed esprimere il divino che è in lui, che è in tutti noi. Che meraviglia, quindi, e quale rimprovero si può muovergli se ha fatto della parola lo strumento fondamentale della sua poesia?

“Parola, o cosa mistica e profonda;

ben io so la tua specie e il tuo mistero

e la forza terribile che dentro

porti e la pia soavità che spandi!”

La parola di d’Annunzio – dicono – è priva di contenuto. Intanto non è detto che la poesia debba avere sempre e soltanto dei contenuti, e non possa anche essere affidata alla pura e nuda musicalità della parola, e poi, quando l’ispirazione è forte, la parola non esclude i contenuti ma li racchiude in sé, mescolati e come perduti. L’uccellino, dice il Pascoli, canta per cantare, ma in quel canto, senza che egli se ne accorga, c’è dentro la vita.

Se d’Annunzio – come dice il Flora – “quasi ignorò la parola in cui si compone la sostanza speculativa e logica delle cose” fu perché delle cose egli ebbe – e lo sentì profondamente nell’anima, oltre che nei sensi – una visione armonica e totale, che lo portò ad immedesimarsi anche nel mondo animale e vegetale, che pure è presente nell’uomo.

Per d’Annunzio, come e più ancora che per Baudelaire, la natura è un tempio, a cui si accede con religioso silenzio, spogliandosi del pensiero, ma per poterlo cogliere nella sua purissima essenza, nei suoi più profondi e segreti significati.

“Taci. Sulle soglie

del bosco non odo

parole che dici

umane; ma odo

parole più nuove

che parlano gocciole e foglie

lontane”.

D’Annunzio avvertì come pochi la presenza di Dio nella natura, si sentì egli stesso trasumanare – diversamente da Dante ma forse in modo più genuino – soprattutto nell’ora del meriggio, che fin dai tempi più antichi ha sempre destato negli uomini, in quell’atmosfera sospesa e rarefatta dall’afosa calura estiva, il senso terribile del numinoso: “… E la mia forza supina si stampa nell’arena, diffondesi nel mare; e il fiume è la mia vena, il monte è la mia fronte, la selva è la mia pube, la nube è il mio sudore. E io sono nel fiore della stiancia, nella scaglia della pina, nella bacca del ginepro: io son nel fuco, nella paglia marina, in ogni cosa esigua, in ogni cosa immane, nella sabbia contigua, nelle vette lontane”.

In nessuna lirica, di qualsivoglia poeta, c’è, come in Meriggio, una tale limpidezza e al tempo stesso una tale profondità di pensiero, una contemplazione assorta e insieme una partecipazione così viva e sentita. C’è espresso in un’armonia e in una musicalità di sentimenti e di forme, il mistero della vita, unitamente a un senso di ineffabile malinconia: l’estasi, infatti, perché tale è anche quella di d’Annunzio, non è felicità nel senso in cui comunemente s’intende: essa è, come dice Julius Evola, un “misto di beatitudine e di amarezza”.

Anche d’Annunzio, che pure si definisce “tecnico peritissimo”, avverte spesso l’insufficienza o l’incapacità della parola a descrivere appieno ciò che sente, perché “a risponder la materia è sorda”. E come della parola, così avverte l’impaccio della carne, che pur gli permette di elevarsi a quelle altezze, perché è in virtù della carne, è in virtù della materia che  lo spirito s’innalza e acquista maggior forza e maggior valore. Da qui il tormento del Poeta, che come in tutti i poeti, è sempre il tormento di dire, da qui la ricerca, faticosa, esasperata, di quella parola di cui egli pur sente il suono dentro di sé ma che in realtà non trova nel linguaggio umano un’espressione, una formula corrispondente.

Indubbiamente il poeta è, rispetto agli altri artisti, svantaggiato, dovendo servirsi di uno strumento che è legato alla logica, senza la quale il suo sarebbe un discorso sconclusionato, un insieme di suoni senza significato. E tuttavia, come osserva il Romagnoli, pur meno diretta ed efficace della pittura, che riesce più agevolmente a tratteggiare i fantasmi pittorici, e meno della musica, capace di seguire docilmente le infinite ondulazioni degli impulsi profondi dell’anima, la parola ha un vantaggio di fronte alla musica e alla pittura, perché le congiunge in sé, dando il volo della musica alle immagini della pittura. “Anch’io / pingo e spiro a’ fantasmi anima eterna”, dice orgogliosamente il Foscolo nelle Grazie, rispondendo al Canova che aveva scolpito la famosa statua di Venere.

In molti passi delle sue opere d’Annunzio stesso accenna al tormento e al processo della parola che si svolge dentro di lui. Scrive nel Venturiero senza ventura: “Talvolta è in noi una verità ancora informe che vuol essere soccorsa per venire alla luce: una verità ancor mescolata al nostro sangue, ai nostri muscoli, ai nostri istinti”. E nella Leda: “Vi sono parole che sembrano crearsi nell’aria indistinta e non portare la forma delle labbra note. Vi sono le parole delle cose e non soltanto le lacrime delle cose, reali le une e le altre. Udendo quelle, non le attribuimmo a una gola amica ma a uno spirito che dimorasse in quel luogo o vi passasse”. E parla dei rapporti fra la musica e la malinconia, uno stato d’animo frequente in d’Annunzio, come la noia leopardiana, laddove il Poeta la definisce “il più sublime dei sentimenti”.

Nel suo fondo e a suo modo d’Annunzio fu un mistico, un veggente che ascolta la voce di Dio, quale essa si esprime senza svelarsi, cioè al di là di ogni contenuto. Ed è quella la voce più schietta, la più autentica e universale. Qualunque contenuto riguarda propriamente l’aspetto umano, e perciò temporaneo, di Dio. Al di là del relativo e del contingente non c’è che il simbolo, ed è a questo che d’Annunzio, come e più degli altri poeti del suo tempo, volle e seppe attingere nella misura più piena.

E’ certo sorprendente come in d’Annunzio la parola, che pure è tutto per lui, finisca con lo scomparire, dissolvendosi nella pura musicalità: tale è il suo magico potere, e tale è l’arte del Poeta. “La parola che scrivo nel buio”, dice nel Notturno, “perde la sua lettera e il suo senso. E’ musica. Le ore passano. La musica è come il sogno del silenzio”. E ancora: “A volte i suoni e i frammenti dei suoni e le pause diseguali si confondono in una sola armonia che si porta con sé la mia tristezza e qualcosa di ancor più triste che la mia tristezza”. In quel buio, dice ancora il Poeta, ogni cosa “perde la sua sostanza e si tramuta in un sentimento che è musicale come le cadenze delle lamentazioni”. Ma forse l’immagine più bella, che sintetizza il senso dell’armonia e del mistero avvertito da d’Annunzio, è in quel passo in cui egli si descrive come un “poeta seduto in riva al fiume del tempo”, ad ascoltare “la melodia del perpetuo fluire”. E nella Leda scrive: “Avevamo nella conca dell’orecchio una melodia argentina, e quelle sillabe ineffabili che si creano a quando a quando nei riscontri del vento”.

“La vera vita di Gabriele d’Annunzio”, ha scritto Ugo Oietti parecchi anni fa, “s’ha ancora da scrivere, con fedeltà all’uomo e al poeta, mostrando che non sono due, e opposti, ma uno, e coerente… Questo fedele dell’amore ha sofferto per l’amore quanto e più d’un altro uomo, perché, a scrivere, le sue stesse parole precise e concrete gli aumentavano il rovello… Ma dalle sue pene e dalle sue debolezze egli s’è sempre liberato sfuggendo verso l’alto, per riafferrare nell’altezza sul mondo il sogno della propria essenza divina, la capacità d’immillarsi e d’indiarsi a volontà, di trovare negli eccelsi un lampo di solare bellezza e di eternità”.

Molti di coloro che si sono occupati di d’Annunzio – vuoi per faziosità politica, per ignoranza o perché privi di sensibilità e incapaci di penetrare nelle pieghe profonde dell’arte e dell’anima umana – più che la luce della sua poesia, hanno cercato, con spasmodica voluttà, le ombre della sua vita privata, quando addirittura non ne hanno insultato l’aspetto fisico, come Manlio Cancogni, che lo ha definito “goffo e dal sedere di anno in anno più rotondo”, un “cafone”, un “rudere privo d’interesse e di significato”, un “mobile tarlato e inutilizzabile, che si dovrebbe mandare in cantina”, un “fenomeno grottesco”, che ispira “un’immediata istintiva ripugnanza non disgiunta da un senso irresistibile di comicità” (il Giornale, 21 marzo 1988), o come Beniamino Placido, che irridendo alla sua “vocina fessa”, gli ha dato del “cretino”, specificando che “i termini stupido, imbecille e cretino non sono affatto equivalenti, perché Carducci era stupido, Pascoli era imbecille, mentre d’Annunzio era proprio cretino” (la Repubblica, 26 settembre 1991).

Stendhal accusava gli Italiani di portare lo spirito di parte anche nelle lettere e nelle arti, e Philippe Jullian, un grande estimatore francese di d’Annunzio, trovandosi in Italia per scriverne la biografia, esclamava: “Verità al di là delle Alpi, menzogna al di qua”, aggiungendo: “E’ incre­dibile che sulle pareti del Campidoglio non esista una targa a ricordare qualche famoso discorso del Poeta, che la maggior parte del­le grandi città, fra cui Milano, abbiano tolto dalle loro piazze la dedica a Gabriele D’Annunzio, che a Roma un solo viale che sale al Pincio porti il suo nome. Questo caso unico di un paese che si vergogna del suo più grande scrittore ne riflette vi­stosamente la mediocrità”.

Solo fra gli stranieri d’Annunzio ha sempre trovato quel riconoscimento e quel consenso unanimi che gli sono mancati in Italia. Fra le tante corone che dopo la sua morte sono state deposte al Vittoriale ce n’è una di Romain Rolland, che reca questa scritta: “Fu, nel declino del XIX secolo, in un’Italia spenta e incolore, un’apparizione indimenticabile. Risvegliò la terra della Bellezza”.